Origini storiche della Cassa di Risparmio

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La Cassa di Risparmio di Pesaro nasce nel 1841, come risposta pratica al problema del pauperismo. Dopo la Restaurazione, lo Stato pontificio era esteso per 41.000 kmq (la superficie della Svizzera) e attorno al 1820 contava due milioni e mezzo di sudditi, che nel 1850 avrebbero superato i tre milioni. Alla forte crescita demografica, però, si contrapponeva una fragile base economica: l’agricoltura mezzadrile, principale cespite di ricchezza nelle Marche, espelleva coloni che diventavano dei braccianti rurali o urbani; e si capisce che i possidenti patissero «l’industria fraudolenta» di quella marea montante che, per vivere, si arrangiava come poteva. L’idea della cassa di risparmio fu questo: un tentativo di fornire alla plebe «oziosa» uno strumento che fosse argine alle avversità: il risparmio.
L’iniziativa pesarese nacque dalla locale Camera di commercio, arti e manifatture che il 20 giugno 1840, propone al cardinal legato di istituire una cassa di risparmio in Pesaro. Sua eminenza approvò immediatamente, purché vi fossero le «necessarie sicurezze», cioè un fondo garante che avviasse l’operazione. Nella seconda metà del 1840 si cercarono sottoscrittori. Entro la primavera del 1841 viene raccolto un capitale sociale di 2.040 scudi, sottoscritto da sessantasette soci. Tra i quali troviamo il vescovo di Pesaro mons. Francesco Canali e il gonfaloniere Giuseppe Machirelli Giordani, poi l’aristocrazia, i professionisti e i commercianti cittadini, dal colonnello Nicolò Lorini agli avvocati Giuseppe Lugaresi e Paolo Barilari, dai conti Giuseppe e Terenzio Mamiani allo spedizioniere Giuseppe Girometti (che era presidente di quella Camera di commercio che aveva promosso l’impresa) e al dottor Domenico Meli, direttore del manicomio.
Il 1° luglio 1841 la Cassa di Risparmio di Pesaro aprì i battenti. Operava gli incassi – cioè riceveva i depositi – di domenica (con il permesso delle autorità ecclesiastiche) ed effettuava gli scassi, cioè le restituzioni, di mercoledì; non accettava versamenti inferiori ai cinque baiocchi né superiori agli otto scudi; l’interesse era del 4% netto (negli «Stati di Santa Chiesa» non esistevano né ritenute né cedolari secche); i prelievi si effettuavano a vista fino a cinque scudi, mentre per somme superiori occorreva un preavviso.
Funzionò. Anzi, si profilò perfino il rischio – per così dire – di un successo smodato. Chi possedeva contanti sperimentò un inatteso conforto nella presenza di un istituto che conferiva un interesse (netto) del 4%. Vero è che si potevano depositare al massimo otto scudi: ma nulla impediva che un ricco possidente aprisse più libretti e versasse, in ciascuno, il maximum consentito. Davanti al forte afflusso di denari, si stabilì un rapporto privilegiato di conto corrente con la ditta Almagià & C. di Ancona (la ditta anconetana si obbligava a ritirare qualunque somma la Cassa di Risparmio di Pesaro le versasse, retribuendola con adeguati interessi, e a restituirla entro dieci giorni dall’eventuale richiesta).
Non furono però dimenticati «gli artigiani ed il basso popolo», a incoraggiare i quali – oltre all’accredito fruttifero «dei frutti dei frutti», cioè degli interessi sugli interessi maturati – vennero destinati dei premi estratti annualmente a sorte tra i più assidui deponenti di piccole somme.
Al 30 giugno 1843, scaduto il secondo esercizio, la Cassa di Risparmio di Pesaro aveva già depositi per 19.500 scudi. Nell’esercizio 1842-1843 vennero effettuate quasi cinquemila operazioni di deposito, 2.035 delle quali con somme inferiori allo scudo. Solo quelle, verosimilmente, rappresentavano il reale afflusso dei poveri. Ma non erano poca cosa.

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